FRA LORENZO DELLA RESURREZIONE (1614-1691)
Venerabile
Nicolas Herman nasce nel 1614 a Hériménil, un piccolo villaggio della Lorena, nel ducato di Borgogna: vi si parlava allora la lingua francese, ma si combatteva per restare indipendenti dalla Francia. D’umile e buona famiglia cristiana, si arruolò presto nell’esercito lorenese, coinvolto nell’interminabile “Guerra dei Trent’anni” che sconvolse e devastò l’intera Europa. Certamente è a questo periodo della sua vita che fra Lorenzo si riferirà più tardi, quando dirà di sentirsi, in convento «come un grandissimo delinquente invitato a mangiare alla tavola del Re dei cieli, e servito perfino dalle Sue mani, senza essere tuttavia sicuro del suo perdono».
Delle vicende militari del nostro soldato lorenese sappiamo che per ben due volte si trovò a un passo dalla morte. Fu arrestato dalle truppe tedesche (allora alleate con la Francia): venne accusato di spionaggio e condannato all’impiccagione. Poi lo lasciarono andare ritenendolo troppo sempliciotto per l’accusa che gli era stata imputata. Infine, durante un’incursione delle truppe svedesi contro la città di Rambervillers, Nicolas rimase sul campo, ferito: era il dieci agosto 1635, festa di S. Lorenzo, e proprio in quel giorno il ragazzo decise d’averne abbastanza, disgustato di guerre, violenze, ferite, non volendo più mettere a così stupido repentaglio la sua vita.
Aveva poco più di vent’anni e nessuna formazione, ma si portava in cuore un ricordo che non riusciva a dimenticare. Era un episodio accadutogli a diciott’anni, quando faceva ancora il contadino: s’era sorpreso un giorno d’autunno a contemplare nei campi un albero solitario, spoglio; ed ecco che, all’improvviso, l’aveva afferrato il senso maestoso del tempo che fluisce, delle stagioni che si avvicendano ordinatamente e inesorabilmente, della vita che trionfa sempre di nuovo, ad ogni primavera, sulla morte: gli era rimasta dentro «un’alta concezione della Provvidenza di Dio e della sua Potenza, che non si cancellò più dalla sua anima». Perciò, quando Herman si vide ferito sul campo, malamente e irrimediabilmente storpiato, non fu la piaga alla gamba che lo afflisse, ma la piaga dell’anima che ricominciò a bruciare.
Zoppicando penosamente, egli prese finalmente a cercare la sua “patria spirituale”. Tentò dapprima un’esperienza eremitica, ma la solitudine lo spaventò. Si recò allora a Parigi e riuscì a impiegarsi come cameriere in una nobile casata, ma il lusso ostentato e vano lo disgustava. E poi era un servitore così maldestro che “rompeva tutto” e meritava continue punizioni. Come rifugio, aveva solo la bella cattedrale di Notre-Dame, dove poteva abbandonarsi nelle mani di Dio e della Vergine Santa.
Aveva uno zio tra i carmelitani – l’Ordine austero, riformato, alcuni decenni prima, da S. Teresa d’Avila e da S. Giovanni della Croce – e si affidò a lui per vedere se poteva condividere quell’esperienza monastica. Così, nel gennaio 1640, a 26 anni, Nicolas Herman varcò la soglia del convento carmelitano di via Vaugirard. Era situato alla periferia di Parigi e vi abitavano più di cento religiosi, tra cui molti giovani ancora in formazione: una comunità, dunque, in continua espansione, anche architettonica, dove l’andirivieni dei religiosi si mescolava a quello dei muratori e degli inevitabili visitatori o fornitori.
Herman vi fu accolto come religioso converso (cioè: non destinato al sacerdozio), per imparare una vita fatta esclusivamente di preghiera e di lavoro manuale. Era “deciso a dare tutto” e ricevette il nome di “fra Lorenzo della Risurrezione”: il nome del santo protettore del suo paese natale, che gli ricordava anche il giorno in cui era stato abbattuto sul campo di battaglia, per poter “risorgere” a vita nuova. Il nome latino (Laurentius) alludeva alla corona d’alloro offerta ai vincitori, ma il nome francese (Laurent) suonava come se evocasse “l’orante”, un uomo destinato a diventare preghiera. E infatti Lorenzo imparò a pregare cominciando a recitare i numerosi Paternoster che la Regola carmelitana prescriveva a coloro che non sapevano recitare il salterio in latino.
Imparò poi a meditare come si usava allora e come si raccomandava di fare soprattutto ai convertiti e a coloro che avevano vissuto nel mondo una vita turbolenta: bisognava, cioè, riflettere sulla gravità dei peccati commessi, sulla morte incombente, sul giudizio certo e severo di Dio, sull’inferno meritato e sul paradiso umilmente implorato. Ottime cose, senza dubbio, ma Lorenzo ne traeva soltanto motivo di angoscia, e ne aveva il cuore stretto. Era entrato in convento deciso a “darsi totalmente a Dio” e capiva che, a tal fine, era certamente necessaria un’opera previa di purificazione e di svuotamento di tutte le esperienze negative accumulate, ed anche di sradicamento delle radici cattive che esistono in ogni cuore di uomo. Ma a Lorenzo tutto sembrava ancora troppo poco e s’accorgeva inoltre che, ad insisterci troppo, si rischiava perfino di fuorviare l’anima. Se il problema di fondo era quello di darsi a Dio bisognava semplicemente rinunciare “a tutto ciò che si interponeva tra l’anima e Dio”; bisognava “rinunciare per Dio a tutto ciò che non era Dio”, senza attardarsi su se stessi nemmeno per ricercare metodi o formule. Il Carmelo gli offrì la formula più adatta e facile, dato che tutti gli ripetevano che l’ideale dell’Ordine era appunto quello espresso così dal profeta Elia, in parole semplici e brucianti: “Vive il Signore, alla cui presenza io sempre sto!”. Decise, quindi, di aggrapparsi a quest’unica certezza e a quest’unico metodo: restare sempre alla Presenza di Dio: «Mi applicai dunque con cura, in tutta la giornata, anche durante il lavoro, a considerare Dio sempre accanto a me, sempre nel fondo del mio cuore».
Gli era stato assegnato l’ufficio di cuoco della comunità: doveva preparare il cibo per più di cento frati, oltre che per le maestranze dei muratori che lavoravano in convento e per le lunghe file di poveri che accorrevano alla porta dei frati, all’ora prevista. La fatica era inimmaginabile: aveva appena il tempo di finire la preparazione di un pasto e di rigovernare, che doveva cominciare la preparazione del pasto successivo, ma spesso doveva anche fare da solo e contemporaneamente il lavoro che avrebbe richiesto la cura e l’attenzione di più persone. Usò dunque il suo metodo. Nei tempi in cui la Regola gli prescriveva la preghiera (per i fratelli conversi erano previsti dei tempi al mattino presto, e anche durante la notte) si lasciava afferrare dal senso della grandezza di Dio e della sua infinita amabilità e prendeva la risoluzione di «volere restare sempre con Lui», poi (finita la preghiera prescritta) si inoltrava nella verità che aveva intuito: «Mi andavo a rinchiudere nel luogo che l’obbedienza mi aveva assegnato che era la cucina (…). All’inizio delle mie occupazioni, dicevo a Dio: “Dio mio, poiché Tu sei con me, ed è per tuo ordine che devo applicare il mio spirito a queste cose esteriori, ti prego di farmi la grazia di restare con Te e tenerTi compagnia. Anzi, meglio ancora: ricevi Tu le mie opere e prendi Tu tutte le mie azioni!”. Poi durante il lavoro continuavo a parlargli con familiarità, ad offrirgli i miei piccoli servizi e a domandargli delle grazie. Alla fine di una azione, esaminavo il modo con cui l’avevo fatta: se vi trovavo del bene, ne ringraziavo Dio; se vi rimarcavo delle pecche, gliene domandavo perdono e senza scoraggiarmi mi correggevo e ricominciavo a stare con Dio come se non mi fossi mai allontanato… Così rialzandomi dalle mie cadute e attraverso la molteplicità degli atti d’amore sono arrivato al punto che mi sarebbe a dir poco impossibile non pensare a Dio…». Ad ogni azione che si profilava un po’ più complicata del solito, diceva a Dio: «Dio mio, questa cosa non saprei come farla, se Tu non mi insegni». Se poi si accorgeva d’aver commesso qualche mancanza, era lui che quasi rimproverava Dio e gli diceva: «Se mi lasci fare, non farò mai qualcosa di diverso [che sbagliare]; sta a Te impedirmi di cadere e correggere quel che non va bene!».
A volte una marea di pensieri stravaganti prendevano il posto del suo Dio, ed egli si accontentava di metterli da parte dolcemente per tornare al suo impiego usuale. Infine la sua fedeltà meritò di essere ricompensata con un ricordo perenne da parte di Dio. Le sue molteplici azioni furono tramutate in una visuale semplice, in un amore illuminato, in una gioia senza interruzione. Imparò così a custodire una pace inalterabile: per quanto le sue occupazioni fossero pesanti e noiose, dovendo egli spesso svolgere da solo il compito normalmente affidato a due persone, non lo si vedeva mai agire di fretta, ma con giusta moderazione dava ad ogni cosa il tempo che richiedeva, conservando sempre un’aria modesta e tranquilla, lavorando senza lentezza e senza precipitazione, restando sempre nella stessa stabilità di spirito e in una pace inalterabile. Esercitò questa attività con tutta la carità possibile per circa trent’anni.
Quello della “presenza di Dio” era un esercizio paziente, che doveva essere ricominciato ogni giorno e passarono anni prima che Lorenzo riuscisse “ad avere pensieri solo per Dio”. Ma ci riuscì. Racconterà a un amico e discepolo: «Nel trambusto della mia cucina, dove a volte più persone mi parlano assieme di cose diverse, possiedo Dio, così tranquillamente come se fossi in ginocchio davanti al SS. Sacramento. E la fede diventa così luminosa che credo d’averla perduta. Mi sembra che la tenda dell’oscurità venga tirata e che il giorno senza nubi e senza fine dell’altra vita cominci a manifestarsi». E spiegava: «Non è necessario avere grandi cose da fare. Io rigiro la mia frittata nella padella per amore di Dio e quando l’ho fatta, se non mi rimane nient’altro, mi chino per terra e adoro il mio Dio che mi ha concesso la grazia di farla, dopo di che mi rialzo più felice di un re. Quando non mi resta altro è per me abbastanza aver raccolto da terra una pagliuzza per amor di Dio… Si va alla ricerca di metodi per imparare ad amare Dio, vi si vuol giungere attraverso non so quante pratiche diverse… ma non è assai più breve e assai più diretto fare tutto per amore di Dio e servirsi di tutte le azioni che dobbiamo compiere per dimostrarglielo, e trattenere in noi la sua presenza, in un continuo scambio tra Lui e il nostro cuore? Non c’è bisogno di nessuna raffinatezza, non c’è che da cominciare con bontà e semplicità».
Non ammetteva neppure l’ombra di narcisismo o di ripiegamento su se stessi. Diceva: «Siamo fatti per Dio solo… Quel che ci manca lo vedremo meglio guardando Dio che continuando a riflettere su noi stessi.
Un testimone ha dichiarato: «Aveva una cura particolare nel servire i suoi confratelli in tutto ciò che faceva, provvedendoli di tutto il necessario… considerava un piacere accontentarli, come se fossero stati degli angeli!». Così si applicava tenacemente ai suoi fornelli, ma impegnava le sue energie interiori su quel solo punto che aveva saldamente afferrato: starsene alla Presenza di Dio.
Le distrazioni non mancavano certo, ma per riprendersi gli bastava ogni tanto uno sguardo alla statuetta della Madonna che teneva in cucina. Col tempo s’accorse, poi, che non era più lui a richiamarsi da qualche eventuale distrazione, ma che se ne incaricava Dio stesso. Confidava a un suo amico che «quando l’impegno esterno lo allontanava un po’ dalla presenza di Dio, il Signore stesso gli inviava un ricordo che investiva la sua anima, e la Presenza di Lui si faceva sentire più fortemente, e lo riscaldava dentro e lo infervorava, al punto che a volte lo faceva quasi piangere, o lo riempiva di una pazza gioia». Quando lo afferravano tali profonde emozioni cercava di nasconderle facendo qualche stranezza che esilarava i presenti.
Eppure, chi legge oggi le sue confidenze spirituali resta sorpreso al sapere che, per i primi dieci anni, questa vita tutta trascorsa “alla presenza di Dio”, si accompagnò ad acutissime sofferenze. Dio gli lasciava la coscienza dei peccati e perfino il dubbio del perdono, ma si limitava a riempirlo di regali, cosicché il fatto di non poter affrontare esplicitamente il tema del perdono e del meritato castigo manteneva l’anima di Lorenzo in una continua passione: «Mi considero il più miserabile di tutti gli uomini, straziato dalle piaghe, pieno di fetori, e che ha commesso ogni tipo di crimini contro il proprio Re; colpito da un grande rimorso, gli dichiaro tutte le mie colpe, gli chiedo perdono, mi abbandono tra le sue braccia perché Egli faccia di me quello che vuole. Ma questo Re, pieno di bontà e di misericordia, invece di castigarmi, mi abbraccia amorevolmente, mi fa mangiare alla sua mensa, mi serve con le sue mani, mi dà le chiavi dei suoi tesori e mi tratta in tutto e per tutto come un suo intimo amico e s’intrattiene e si diletta senza sosta con me in mille modi, senza mai voler parlare del mio perdono, né togliermi le mie originali abitudini; e benché io continui a pregarlo di formarmi secondo il suo cuore, mi vedo sempre più debole e più miserabile; ma comunque sempre più vezzeggiato da Dio…».
Così Lorenzo continuava a star lì tremante e confuso – quasi più per l’amore che riceveva che per il pentimento che provava – contemplando l’unica immagine che riusciva a spiegargli il mistero: quella di un Gesù flagellato, che c’era in una stanzetta accanto alla sua cucina. E in quella cucina, si realizzava così – giorno dopo giorno – il miracolo dell’«amore puro»: quell’amore, cioè, che dal cuore dell’uomo va direttamente a Dio senza soffermarsi in null’altro, non nei propri interessi, non nei propri gusti, non nei propri giudizi e nemmeno nelle proprie speranze: senza soffermarsi nemmeno nella paura dell’inferno o nell’attesa del Paradiso!
«Io sono entrato in convento solo per amor di Dio. L’ho fatto solo per Lui. Che io sia dannato o salvato, voglio continuare ad agire puramente per amor di Dio. Qualsiasi cosa succeda alla fine, ci avrò guadagnato almeno questo: d’aver fatto del mio meglio per amarlo fino all’ultimo giorno di vita».
E con questa decisione estrema, dopo quei primi lunghi anni di pene interiori, ogni pena scomparve: «Fu come se avessi raggiunto il centro del mio essere – disse – il luogo del riposo».
Fra Lorenzo non conosceva molto della dottrina dei grandi mistici carmelitani, ma aveva appreso per istinto interiore il loro linguaggio e la loro visione del cammino spirituale, inteso come viaggio verso le profondità del cuore umano, dove Dio stesso ha deciso di abitare. L’espressione che egli maggiormente amava era quella che Santa Teresa d’Avila spesso ripeteva alle sue monache: «Coraggio, figliole mie! Non affliggetevi se l’obbedienza vi impiegherà in opere esteriori. Vi mettesse pure in cucina, il Signore verrebbe anche tra le pentole, ad aiutarvi, interiormente ed esteriormente» (Fond. 5,8). E difatti, Lorenzo ve Lo incontrava ogni giorno. Diceva anzi che, nei momenti di difficoltà, poteva «guardare in Dio come in uno specchio, per sapere quel che doveva fare e come doveva farlo».
Allo stesso modo Lorenzo non conosceva molto della dottrina di S. Giovanni della Croce, anche se proprio in quel convento e in quegli anni c’era un dotto frate che stava intanto traducendo in francese le opere del mistico spagnolo.
Aveva scritto S. Giovanni della Croce: “Un briciolo di puro amore è più prezioso davanti a Dio e all’anima, e giova di più alla Chiesa, anche se sembra che non conti niente, che tutte le altre opere unite assieme» (Cantico spirituale B, 29,2). E il nostro fratello ripeteva volentieri questo giudizio umile e glorioso: «È per me abbastanza aver raccolto da terra una pagliuzza per amor di Dio, cercando solo e soltanto Lui e nient’altro». E ancora: «Non vorrei sollevare una pagliuzza da terra contro il volere di Dio, né per un motivo diverso dal puro amore per Lui».
A leggere gli scritti e i ricordi di fra Lorenzo della Risurrezione, sembra quasi di sentire un antenato (quasi un vecchio nonno) di S. Teresa del Bambino Gesù. Certo è che la dottrina delle “piccole cose” risuona già tutta sulle labbra di questo umile carmelitano vissuto nel secolo XVII. Riferisce Mons. di Beaufort: «Fra Lorenzo non pensava né alla morte, né ai suoi peccati, né al paradiso né all’inferno, ma solo a fare piccole cose per amor di Dio (…). Si trovava allora in calzoleria, dove stava con piacere, ma era pronto a lasciare quell’impiego, e anche qualsiasi altro ufficio, non facendo altro che rallegrarsi sempre nel compiere piccole azioni per amor di Dio». Di lui viene testimoniato che «sapeva che la piccolezza di una cosa non diminuiva in nulla il valore della sua offerta, perché Dio non ha bisogno di nulla e nelle nostre opere considera soltanto l’amore che le accompagna».
Lorenzo continuava, giorno dopo giorno, in un ininterrotto stillicidio di ore e di compiti sempre uguali, a far sì che «tutte le sue azioni fossero un breve colloquio con Dio». Era così felice che a volte diceva d’essere stato ingannato da Dio: era entrato in convento per far penitenza, persuaso oltretutto che l’avrebbero scorticato vivo a causa delle sue goffaggini. Se nel mondo, i suoi padroni l’avevano punito duramente per ogni malanno combinato, chissà cosa gli avrebbero fatto in convento, s’era detto oltrepassando la soglia del monastero, e invece vi aveva trovato un Padrone divino che lo colmava di dolcezze interiori. Diceva di sentirsi «come un miserabile che Dio prendeva per mano, per presentarlo davanti a tutto il paradiso, per mostrare a tutti che si compiaceva di riversare su di lui le sue grazie».
Faceva il cuoco, o intraprendeva lunghi e faticosi viaggi, su carro o battello, per andare lontano ad acquistare, più a buon mercato, il vino per i suoi frati. Intanto gli anni passavano e fra Lorenzo s’era ridotto a non poter più stare in piedi: le antiche ferite alla gamba si erano riacutizzate, e una sciatica ulcerosa lo tormentava. Quando i superiori se ne accorsero, lo tolsero dalla cucina e gli assegnarono l’ufficio di calzolaio. Non esistevano allora fabbriche o negozi e toccava a lui provvedere a riparare i sandali dei suoi cento frati, e confezionarne di nuovi. Divenne così «ciabattino, con sua grande delizia». Anche se per Lorenzo «tutto era ormai lo stesso, ogni posto, ogni occupazione, perché trovava Dio ovunque, sia aggiustando i sandali sia pregando con la comunità», egli sapeva però apprezzare il fatto che, seduto al suo deschetto, poteva godere di maggior raccoglimento.
Ormai in convento era diventato una istituzione. I frati giovani avevano ogni tanto il permesso di venirgli a chiedere qualche consiglio, ed egli trovava spontaneo rivolgersi a loro con la più celebre espressione di S. Agostino. Diceva loro: «Bontà così antica e così nuova, vi ho amato troppo tardi! Non fate come me, fratelli miei! Siete giovani, approfittate di questa confessione sincera che vi faccio: nei miei anni giovanili, mi sono impegnato poco a servire Dio. Ma voi, consacratevi totalmente al suo amore. Se io l’avessi conosciuto prima, se mi avessero detto prima le cose che io ora dico a voi, non avrei tardato tanto ad amarlo! Credetemi, tutto il tempo che non viene usato per amare Dio, è tempo perduto!».
Stranamente la sua fama s’era dilatata, anche oltre le mura conventuali. Spesso veniva a visitarlo Mons. di Beaufort, vicario del cardinale di Noailles, che amava intrattenersi con lui su problemi spirituali. Il dotto monsignore diceva d’essere affascinato da due qualità di quell’umile fraticello carmelitano: la singolare saggezza e una singolare libertà di spirito: «Gli si poteva parlare di tutto, ed aveva una mente capace di intrattenersi sulle più gravi questioni».
Un paio di volte giunse perfino in visita una delle più celebri personalità del tempo, il futuro vescovo di Cambrai, Fénélon. Dopo che l’ebbe conosciuto, Fénélon scrisse alla contessa di Montboron: «Fra Lorenzo è rozzo per natura e delicato per grazia. E quest’insieme è amabile, e mostra Dio presente in lui». E la volta successiva riferì: «Fra Lorenzo è molto ammalato e molto contento». Al medico che lo curava diceva con un pizzico d’umorismo: «Ah, Signore, lei è troppo bravo per me… Non fa che ritardare la mia felicità!». Ai suoi confratelli aveva spiegato: «Sono vicino al momento di andarmene a Dio, cioè, ad andare a rendergli conto della mia vita. E quando avrò visto Dio, anche per un momento solo, la pena del purgatorio mi sembrerà dolce, anche se dovessi starci fino alla fine del mondo».
Dice un testimone: «Compiva continuamente atti d’amore, e avendogli un religioso domandato se amava Dio con tutto il cuore, rispose: “Se sapessi che il mio cuore non ama Dio, me lo strapperei via subito!”».
A tutti egli lasciava questo semplicissimo messaggio: «Bisogna lavorare dolcemente, tranquillamente, amorosamente, con Dio».
E “l’Elogio” a lui dedicato si conclude semplicemente così: «Fra Lorenzo morì tra le braccia del suo Dio», quel Dio al quale aveva rivolto spessissimo questa semplice giaculatoria: «Eccomi tutto per te Signore / fammi secondo il tuo cuore».