SANTA MARIA MARAVILLAS DI GESÙ

1891 – 1974

Memoria facoltativa, 11 dicembre

 

È una caratteristica affascinante del Carmelo quella di saper offrire periodicamente al mondo delle “personalità mistiche”, capaci di interpretare il dramma d’amore che la Chiesa vive nei riguardi di Cristo, suo Sposo. Ed è sempre un dramma di “passione” (cioè di sofferenza e di geloso attaccamento) che si consuma in luoghi ed epoche diverse, là dove il mondo aggredisce la Chiesa e la purifica.

Così è accaduto a Santa Teresa d’Avila al tempo della lacerazione protestante e delle guerre spagnole di “conquista”; così è accaduto a Santa Teresa di Lisieux e a Santa Elisabetta della Trinità al tempo del positivismo scientista e del primo ateismo; così è accaduto a Edith Stein (S. Teresa Benedetta della Croce) quando l’intelligenza moderna ha ceduto ai miti sanguinosi del totalitarismo; così è accaduto in altri tempi e luoghi per drammi più circoscritti, ma non meno intensi.

La guerra civile spagnola

Oggetti religiosi accatastati in piazza, Bilbao (Spagna)

Così è accaduto a Santa Maria Maravillas di Gesù, nell’epoca in cui un’antica nazione cristiana fu aggredita da una furia di distruzione “così spaventosa, con un odio e una barbarie e una ferocia che non si sarebbe potuto credere possibile nel nostro secolo”. Queste parole si trovano in una enciclica di Papa Pio XI e si riferiscono a vicende accadute verso la metà degli anni ’30, quando una rivoluzione di stampo marxista tentò di impadronirsi della Spagna e di distruggervi ogni traccia di cristianesimo.

In pochi mesi furono assassinati 13 vescovi e 6832 tra preti, religiosi e monache, oltre a parecchie centinaia di migliaia di laici, colpevoli solo d’essere notoriamente cristiani, o anche solo d’avere in tasca un’immaginetta sacra o un rosario. E l’assassinio era abitualmente preceduto da sevizie e torture che non si ha nemmeno il coraggio di raccontare. Ventimila chiese furono distrutte e vennero profanati altari, tabernacoli, tombe e cimiteri; incendiati archivi e biblioteche; musei furono devastati e migliaia di opere d’arte distrutte: tutto al solo scopo di estirpare anche il ricordo della fede cristiana. L’esperimento fu contrastato in una guerra civile che moltiplicò le atrocità in entrambi gli schieramenti, aggiungendo all’odio religioso, quello politico e di parte.

Ma è una menzogna storiografica quella di chi tenta ancora oggi di accreditare l’idea che la Chiesa sia stata perseguitata per la sua scelta di campo durante la lunga e sanguinosa guerra civile, e quindi per motivi politici. Bastano le date a dimostrarlo. La guerra civile scoppiò il 18 luglio 1936: a quella data erano già stati uccisi 18 sacerdoti. Per fine luglio ne erano stati assassinati 861; a fine agosto 2077, oltre a dieci vescovi, e per fine settembre si era già a 6500 preti e religiosi eliminati per puro odio anticristiano.

Intanto a Mosca il delegato dei “rossi” spagnoli al Congresso Internazionale del Partito Comunista si vantava: “La Spagna ha superato di molto l’opera sovietica, perché in Spagna la Chiesa è già stata completamente annientata”. L’annientamento, a dire il vero, non era ancora stato condotto a termine, ma il programma di sterminio era in atto da tempo, e assassini, incendi e persecuzioni erano cominciati fin dal 1931. La guerra civile, dunque, scoppiò perché la Spagna cristiana comprese d’essere destinata a soccombere alla furia congiunta di socialisti estremisti, di anarchici virulenti e di comunisti addestrati in Russia.

Oggi gli storici più imparziali riconoscono che “in nessun altro periodo della storia d’Europa e forse del mondo, c’è mai stato un odio così violento contro la religione e tutte le sue opere” (Hugh Thomas).

Madre Maravillas non fu martire, anzi la sua vicenda ha dell’incredibile, proprio perché ella riuscì a passare indenne nella tormenta, pur venendo ripetutamente a contatto con i più feroci rivoluzionari. La sua vocazione non fu quella del martirio, ma quella di interpretare la tragedia vissuta dalla Chiesa nella sua terra natale.

La crescita in famiglia e la chiamata

Maria Maravillas a 22 anni (1914)

Il nome Maria Maravillas (“Maria dei miracoli”) lo aveva ricevuto alla nascita, secondo un uso tipicamente spagnolo di dare come nome proprio anche qualche titolo mariano o perfino il nome di qualche santuario dedicato alla Vergine. Figlia del Marchese di Pidal, ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, Maria nacque nel 1891 (lo stesso anno di nascita di Edith Stein). Ancora piccolissima rimase affascinata dalle storie delle antiche martiri cristiane che la nonna le leggeva dal Flos Sanctorum, tanto da poter dire in seguito che la sua vocazione alla vita religiosa e la sua consacrazione verginale datavano, più o meno, da quando aveva acquistato l’uso di ragione. Da sempre aveva sentito che il suo cuore poteva e doveva appartenere soltanto a Dio. Una tale inspiegabile certezza, quasi connaturata alla sua coscienza, incontrò però una sistematica opposizione da parte della famiglia e da parte del direttore spirituale, che la trattennero nel mondo fino ai ventotto anni.

Ella visse l’attesa con vivacità e in un deciso lavoro di preparazione: imparò a rinunciare a molte comodità domestiche, a vivere sobriamente e ad avvicinarsi ai poveri dei più miseri quartieri di Madrid con vera e rischiosa carità; apprese quei lavori manuali che in monastero le sarebbero stati utili; imparò a dominare e addolcire il suo carattere imperioso; imparò a coniugare la sua innata signorilità con una spontaneità umile e semplice.

Racconterà poi lei stessa l’esperienza interiore che l’aveva liberata, una volta per tutte, dal gusto di primeggiare e dall’innato istinto di compiacersi di se stessa. Un giorno, in cui aveva particolarmente gustato delle lodi che le erano state rivolte, aveva sentito con assoluta chiarezza nel suo animo la voce di Gesù che le diceva: “Io però sono stato giudicato pazzo!”. E il dolore era stato così forte che, d’allora in poi, non aveva più sentito nessun desiderio della stima altrui.

L’entrata al Carmelo

Alfonso XIII consacra la Spagna al Sacro Cuore

Solo nel 1919 le fu concesso di entrare nel Carmelo di El Escorial, e una tale data – alla luce dei successivi avvenimenti – ci spinge a pensare che forse Dio la voleva al Carmelo già adulta, già pronta alla missione che intendeva affidarle. In quello stesso 1919, infatti, la Spagna cattolica aveva deciso di dare pubblica e solenne testimonianza della sua fede, innalzando nel centro geografico della nazione – su una collina detta il “Cerro de los Angeles” (la “Collina degli Angeli”) – un grandioso monumento al Sacro Cuore, sul cui basamento si leggevano queste parole messe in bocca a Gesù stesso: “Regno nella Spagna”. Il Re Alfonso XIII, ai piedi della statua, aveva solennemente consacrato al Sacro Cuore la nazione, definendola “Popolo della tua eredità e della tua predilezione”. Anche Maria s’era recata ai piedi del monumento per fare la sua personale consacrazione, prima di varcare la soglia della clausura.

Nel monastero di El Escorial ella trascorse i primi anni di formazione monastica, convinta di dover abitare per sempre in quell’ “angolino di paradiso” (così Santa Teresa d’Avila usava definire i suoi monasteri). Intanto però la Collina degli Angeli – dopo i primi entusiasmi – era rimasta abbandonata, meta di rari pellegrinaggi, divenuta luogo di pascolo per capre e pecore, che a volte salivano pigramente a brucare l’erba che spuntava tra le solenni gradinate del monumento. Il Sacro Cuore era attorniato da devotissime statue, ma quasi non c’erano cristiani. E i tempi si facevano sempre più bui e freddi.

Un monastero vicino al Sacro Cuore

Ma ecco che, durante le lunghe ore di preghieraalla giovane suor Maria Maravillas di Gesù, ancora giovane professa di voti temporanei, si ripresentò un giorno la Collina degli Angeli. La rivide, cioè, in una specie di visione e sentì una voce che le diceva: “Voglio che tu mi edifichi una casa dove io possa abitare a mio agio. Il mio cuore ha bisogno di essere consolato e il Carmelo dev’essere il balsamo che cura le ferite che i peccatori mi infliggono. La Spagna si salverà con la preghiera”. Era il mese di giugno del 1923. Ma come poteva una giovane suora pensare a una nuova fondazione, in un luogo solitario e inospitale, privo all’intorno di abitazioni, di vegetazione, di acqua…? Ne parlò timidamente alla Priora e, come sempre accade quando un’opera è voluta da Dio, le circostanze si disposero subito favorevolmente: il progetto timidamente accennato veniva accolto con entusiasmo da ecclesiastici e da personalità, anche quando si era quasi pregiudizialmente certi che la reazione sarebbe stata ostile. Suor Maria mise soltanto a disposizione la sua dote e l’aiuto della propria famiglia.

Cerro de los Angeles, chiesa del monastero

Così all’alba del 19 maggio 1924 quattro monache carmelitane (due delle quali piuttosto anziane) partirono per raggiungere il Sacro Cuore abbandonato. Alle porte di Madrid le accolse una spaventosa tempesta, ma quando giunsero in vista della santa collina, si distese in cielo uno splendido arcobaleno. Nell’attesa di iniziare la costruzione di un monastero a lato del monumento, si rifugiarono in una piccola casa ch’era stata messa a loro disposizione nel paese più vicino, a Getafe: c’erano dei pagliericci per terra, una tavola, una cappellina e tanta povertà. Dopo pochi giorni suor Maria fece la sua professione solenne in quella residenza provvisoria. Ci volle quasi un anno per giungere alla posa della prima pietra del nuovo edificio. Intanto a Getafe giungevano novizie desiderose di partecipare all’impresa e suor Maria Maravillas fu nominata d’autorità loro maestra di noviziatoDopo pochi mesi – nonostante la sua estrema ripugnanza – le venne addossato anche l’ufficio di Priora. Quando nell’ottobre del 1926, per la festa di Cristo Re, il nuovo monastero poté essere inaugurato, le quattro monache erano diventate già undici, quasi tutte giovani. Durante la cerimonia inaugurale il Vescovo disse profeticamente: “Solo il cuore ferito d’amore di Teresa d’Avila, che batte nel cuore delle sue figlie, può rappresentare degnamente il cuore della Spagna, per fare compagnia al Cuore di Gesù nella solitudine della collina”.

Nel 1931 le Chiese e i conventi di Madrid cominciarono a bruciare. Le notizie si facevano sempre più tragiche e le monache presero a tremare. Ma non per sé. Tremavano per la sorte di quel Sacro Cuore elevato nel cuore della nazione. Sapevano che avrebbe presto attirato su di sé l’odio dei senza-Dio.Intanto il Vescovo si preoccupava di quella comunità di povere donne, così isolate e prive di ogni protezione, tanto che ordinò loro di abbandonare il monastero. Dopo tre giorni, però, chiesero insistentemente di tornare e furono lasciate libere di decidere. Tornarono tutte, nonostante le famiglie avessero tentato di ricondurre a casa almeno le più giovani. Chiesero però il permesso di poter uscire dalla clausura, per schierarsi attorno al monumento del Sacro Cuore, nel caso di un attacco. Il permesso fu negato, ma le monache si rivolsero direttamente al Superiore Generale dell’Ordine.

Scrissero: “Qui il Signore ha accanto a sé soltanto 21 monache carmelitane. Soltanto. Sono esse obbligate dalla santa clausura a lasciare che il Sacro Cuore venga abbattuto dal suo trono, senza poter accorrere vicino a Lui per difenderlo o almeno per non lasciarlo solo in mezzo ai suoi nemici? Non è possibile fare in modo che Egli abbia attorno a sé dei cuori, poveri sì (Lui lo sa bene) ma molto innamorati? Per noi la sorte più crudele non sarebbe quella di perdere la vita, ma quella di non potergli fare compagnia. Se Lui dovrà ascoltare le grida di odio dei suoi nemici, che possa almeno ascoltare anche il nostro canto di lode”. La domanda fu trasmessa direttamente al Papa e Pio XI, commosso, diede il permesso: sì, in caso di attacco, le monache potevano uscire dalla clausura per fare compagnia al loro Sacro Cuore. Ma allo scoppio della guerra civile (quattro giorni dopo) il monastero fu aggredito prima del monumento.

L’interdizione nel monastero e la fuga a Madrid

Miliziani puntano le armi contro il Sacro Cuore

Quel giorno in cui i miliziani si presentano alla porta del monastero la Madre raduna in fretta le novizie e concede, a quelle che lo desiderano, di emettere subito la professione solenne. Con gioia tutte promettono a Dio “castità, povertà, e obbedienza, fino alla morte”, convinte di essere a un passo dal dono della vita. Intanto i miliziani hanno perquisito il convento e tornano dal loro capo, esclamando disgustati: “Ma se non hanno niente! Nemmeno un letto hanno!”. Il gruppo è comandato da un tale soprannominato “il Russo”, perché ha passato un periodo di addestramento in Unione Sovietica. Costui si aspetta un gruppo di suorine spaventate, e si trova davanti una monaca sicura di sé, sorridente, attorniata da uno stuolo di giovani assolutamente serene. È interdetto. Prende l’iniziativa la Priora che gli chiede cortesemente il permesso di andare con le sue monache a salutare il Sacro Cuore prima di esser portate via. Il Russo è talmente stupefatto di quell’ardire che non riesce nemmeno ad opporsi. Prima che si sia reso conto di quello che sta accadendo, la Madre è lì che guida la processione di ventuno monache avvolte nel loro mantello bianco che vanno a salutare il loro Re e Signore, cantando il Te Deum.

Vengono provvisoriamente trasferite, sotto stretta sorveglianza, in un vicino convento di Orsoline francesi. Da poco lontano possono così partecipare alla spirituale agonia del loro Sacro Cuore. Per sette giorni si succedono inutilmente le esplosioni con cui si tenta di abbattere il grandioso monumento. Alla fine bisogna far intervenire un’apposita squadra di minatori asturiani esperti in esplosivi. Le monache, da lontano, vegliano a turno per sette giorni e sette notti, e la comunità accompagna ogni esplosione col canto della Salve Regina.
Alla settima notte, primo venerdì del mese, giunge la notizia che il monumento è crollato tra un coro feroce di bestemmie.

Cominciò così una vicenda che ha dell’incredibile: le povere monache non sono riuscite a proteggere il loro Sacro Cuore, ma il Sacro Cuore proteggerà quelle povere monache che avrebbero fatto di tutto per morire per Lui.

Madre Maravillas chiede al Russo che la comunità sia trasferita a Madrid, anche se ciò significa gettarsi letteralmente nelle fauci del lupo. Nella capitale tutte le chiese sono state chiuse; la celebrazione della Santa Messa è considerata un crimine; ogni comunità religiosa è disciolta; preti, frati e monache sono preda da caccia. Le monache di Madre Maria riescono a rifugiarsi in un appartamento messo a disposizione dai parenti di una di loro. Si tratta di un rifugio temporaneo per tempo necessario perché ogni monaca possa tornare alla sua famiglia d’origine. In realtà l’appartamento diventa un monastero clandestino, nel quale osano perfino accogliere un padre carmelitano in fuga dalla polizia. Così hanno ogni giorno la Santa Messa assicurata, il che basterebbe a far rischiare loro la vita.

Beate Martiri Carmelitane di Guadalajara

Qui le monache resteranno per un intero anno, realizzando quello che viene considerato il più grande miracolo di Madre Maravillas: una comunità carmelitana che vive nascosta, come nelle catacombe, ma rispettando quasi integralmente la regola con i suoi orari, i riti, le pratiche religiose, il silenzio, i momenti di ricreazione (anche se devono tutte dormire per terra, in un’unica stanza). E vivono con tanta serenità e paceanche se sono continuamente raggiunte da notizie atroci (uccisioni di familiari, di amici, di altre monache, di padri carmelitani), anche se soffrono di assoluta scarsità di cibo, di impossibilità di respirare all’aria aperta, e sotto la continua minaccia d’essere denunciate e arrestate. Come se non bastasse, proprio di fronte alla casa c’è una prigioneda dove a sera si sentono spesso le urla dei prigionieri torturati. La Madre passa lunghe ore della notte a pregare per loro, con la testa appoggiata al tabernacolo. Qui ricevono la notizia che tre carmelitane sono state martirizzate a Guadalajara: “Che fortuna – commentano – e che onore per l’Ordine Carmelitano!”.

A contatto coi miliziani

Santa Maria Maravillas di Gesù

E un giorno la perquisizione arriva: alla porta dello stabile si presenta una pattuglia di miliziani, guidata da un feroce comandante anarchico della capitale: un certo Avelino Cabrejas, capo di una delle più famigerate “checas” di Madrid, una di quelle prigioni dove abitualmente si torturavano e si uccidevano i prigionieri senza processo. La perquisizione è minuziosa, ma in casa non ci sono nemmeno i materassi: i miliziani frugano fin nella cenere del focolare; poi uno di essi strappa alle suore il crocifisso che portano sull’abitoe i rosari che tengono appesi alla cintura. Cabrejas è stupefatto della serenità delle monache.
«Come fate a non aver paura, a restare così contente, in mezzo a tanti pericoli e in tanta miseria, senza avere niente di niente?».
«È Dio che fa tutto. Non abbiamo paura perché desideriamo dare la vita per Cristo, e preghiamo molto, molto per voi», spiega la Madre.
Alla fine le monache chiedono la restituzione dei loro crocifissi e il miliziano che li ha raccolti si altera visibilmente.
«Daglieli, hombre», dice Cabrejas. «Non vedi che non riescono a vivere senza?». È il complimento più bello che le monache abbiano mai ricevuto.

La pattuglia se ne va e si ode un miliziano che sulle scale rimbrotta Cabrejas: «Ma come non ne hai arrestata nemmeno una?», «Bah, a che serve? Sono soltanto delle povere infelici!». In realtà quello che egli non riesce a capire è proprio la felicità di quelle monache.

Cabrejas porta via la sua gente, ma torna qualche tempo dopo con un altro, peggiore di lui. Cabrejas lo presenta alla Priora come “il suo addetto alle torture e alle esecuzioni”; ma dice d’averlo portato in visita “a titolo d’amicizia”. La comunità li accoglie: le monache sono sedute per terra. Dapprima l’interrogatorio è benevolo, poi il carnefice interviene brutalmente: «Non sapete che siamo anarchici e possiamo togliervi di mezzo in un istante? Non avete paura?», «No – ribatte la Madre – non abbiamo paura. Potete toglierci la vita, questo è tutto. Ma noi desideriamo dare la vita per Cristo», e chiede alle monache di intonare il loro canto preferito, che hanno composto in quei giorni, in puro stile teresiano. Alcune parole del canto dicono: “C’è una grazia più grande di quella del martirio? / Se Dio vuole che io sia imprigionata / o che in prigionia io muoia / ebbene, dirò che sono sì prigioniera / ma prigioniera solo del suo amore!”.

I due se ne vanno addirittura commossi, commentando incredibilmente: «Dopo tutto è bello che siano così entusiaste della loro vita. Questo significa essere veramente cattolici!». Le suore, invece, si rimproverano perché, a causa del loro canto, si sono fatte sfuggire l’occasione di morire martiri. “È stato il canto a rovinarci!”, commentano la sera in ricreazione. In compenso Cabrejas manda loro un regaloaltre due monache d’un altro Ordine, arrestate a Toledo e inviate alla sua prigione per essere giustiziate. Pian piano, sotto la tacita protezione di quella belva – che ridiventava stranamente umana solo davanti allo sguardo della Madre – l’appartamento diventò una piccola centrale di vita cristiana e di caritàe un rifugio per tante monache d’altri monasteri e istituti, anche se ogni giorno si correvano rischi sempre più gravi.

A Las Batueca

Eremo carmelitano di Las Batuecas

Quando la situazione divenne comunque insostenibile, la Madre decise di intraprendere un viaggio di fortuna, tra innumerevoli pericoli per trasferire tutta la comunità nell’altra parte della Spagna: un viaggio su camion di fortuna da Madrid a Valencia, a Barcellona, a Lourdes, rientrando poi dalla parte di Salamanca, fino a rifugiarsi tutte nell’antico e cadente eremo carmelitano di Las Batuecas.

Qui in una povertà estrema (solo dopo parecchi mesi riuscirono ad avere pagliericci, lampade di acetilene, piatti e posate), ma anche in tanta dolce solitudine, Madre Maravillas fece a Dio il voto “più perfetto”promise, cioè, che avrebbe scelto in ogni circostanza, tra due alternative possibili, quella che esprimesse “più amore”. Scriveva: “Il Signore mi dà un tale desiderio di amarlo che, durante il giorno, non posso pensare ad altro, mentre tutte le cose della vita rimangono come al di fuori di me”. E tuttavia “le cose che restano al di fuori” la prendono costantemente, perché deve occuparsi letteralmente di tutto.

Finalmente alcune monache poterono tornare alla Collina degli Angeli (che nel frattempo era stata nominata “la collina rossa”). Giunsero proprio mentre Madrid veniva presa d’assalto dai nazionalisti, e la situazione era ancora rischiosa. Trovarono il monastero semidistrutto: i miliziani che vi si erano acquartierati avevano bruciato mobili, porte, arredi, mura, e certe stanze usate come letamaio avevano una dura crosta di immondizie alta più di settanta centimetri. Dopo più di due mesi la clausura poté essere ristabilita, e la comunità originaria fu riunificata, anche se nel frattempo erano talmente cresciute di numero che una parte di essa dovette restare all’eremo de Las Batuecas.

Ritrono al Cerro de los Angeles

Sacro Cuore scolpito rimasto integro

L’unica pena era vedere il caro monumento del Sacro Cuore ridotto in macerie: le pietre erano state tutte ammassate in disparte. Un anno dopo, durante un corso di esercizi spirituali, il Signore Gesù farà un regalo alle sue spose fedeli. Il predicatore degli esercizi, passeggiando tra l’ammasso di rovine, riuscirà a identificare proprio ilblocco di pietra su cui era scolpito il cuore di Cristo, contornato di raggi. Ebbene, i miliziani avevano tutti mirato al cuore, ma nessuno era riuscito a colpirlo davvero: le scalfitture provocate dalle pallottole (le “ferite”) erano tutte e sette attorno ad esso, a forma di corona. Anche questo era un segno, e la grande pietra chiamata “la santa Reliquia” venne collocata in un eremo, dove le monache a turno si ritiravano in solitudine per pregare.

La vita carmelitana riprende tutta la sua intensità e con il santo obiettivodi offrire al Sacro Cuore tutta l’adorazione che Egli merita. Secondo Madre Maravillas compito delle carmelitane è ripagarlo di tutto l’amore che gli negano tante creature inconsapevoli d’essere state create proprio per dargli amore. «Dà una pena terribile non approfittare di tutti gli istanti di vita per dargli questo conforto», spiega alle sue giovani novizie.

Le fondazioni

Intanto le vocazioni giungono numerosissime e il monastero non è più in grado di accoglierne: da quando sono tornate alla collina sono entrate nove postulanti, e altrettante aspettano di entrare. Così, senza assolutamente volerlo, la Madre si trova proiettata in una incessante opera di fondazione.

All’inizio degli anni ’30 ha già inviato alcune delle sue figlie a fondare un monastero in India; altre le ha lasciate all’eremo dove si sono rifugiate durante la guerra, ed ora – dagli anni ’40 fino a metà degli anni ’60 – intraprende obbedientemente un lavoro senza requie che la porterà a fondare un’altra decina di monasteri sparsi in tutta la Spagna e a restaurarne altri due. E appena può cerca di fondare in luoghi cari alla memoria storica dell’Ordine Carmelitano. Più tardi fonderà anche un convento per i padri e perfino una clinica per religiose inferme.

Ogni volta – tra gli inevitabili e lunghi travagli che ogni fondazione richiede – ella pensa a una grazia che il Signore le ha fatto nei primi anni della sua vita religiosa quel giorno che ha sentito nell’anima – pronunciate con assoluta chiarezza da Dio stesso – queste parole bibliche: «La mia gioia è abitare con i figli degli uomini» (Pr 8,31). Da allora ella le porta incise nel cuore, brucianti, e non trova nella vita felicità più grande di questa: offrire a Dio tali “viventi abitazioni”. Per questo si sottomette a continui viaggi, a fatiche senza numero, per organizzare la vita delle nuove comunità, pur di poterGli offrire dei cuori ospitali, e pur di non lasciare senza casa tutte quelle ragazze che chiedono di abitare nella “patria carmelitana”.

L’educazione che Madre Maravillas trasmette loro può essere tutta riassunta in una formula che ella ripete continuamente: «Quello che Lui vuole, come Lui vuole, quando Lui vuole». E spiegava: «Dio, bisogna lasciarlo fare; bisogna lasciare che Lui ci faccia santi!». Pronunciava queste parole come se contemplasse, già realizzato, il meraviglioso disegno che Dio ha su ciascuna anima: «Se tu Lo lasci fare, come lo farà bene!», diceva.

Le fondazioni si succedevano così l’una all’altra, ma appena l’opera era avviataella si sottraeva umilmente e non interferiva più, anche se tutte continuavano a considerarla “la Madre”, a chiederle consiglio, ad obbedirle. «Si fa obbedire, anche senza comandare», dicevano.

Gli anni del Concilio Vaticano II

Purtroppo, contro sua voglia, Madre Maravillas divenne segno di contraddizione. Per un misterioso disegno di Dio, infatti, la sua opera di fondatrice si sviluppa negli anni che immediatamente precedono e seguono il Concilio Vaticano II, quando la vita religiosa (non esclusa quella carmelitana) è agitata dalla bufera del cosiddetto aggiornamento. Necessario per tanti versi, l’adattamento voluto dal Concilio esige criteri sicuri e decisioni a volte dolorose. Esige soprattutto grande fede, grande speranza e grande carità. Quando queste virtù mancano (e chi può giudicarle, prima che se ne vedano i frutti?) tutto è possibile: si succedono così tempi, luoghi ed esperienze dove sembra che tutto stia rifiorendo, e altri in cui sembra che tutto stia rovinando. Per anni e anni nelle posizioni estreme si fronteggiano coloro che vogliono tutto conservare e coloro che vogliono tutto cambiareIn mezzo stanno coloro che cercano faticosamente di orientarsi. A monte – meno immediatamente espressa, ma ancora più grave – si va, via via, imponendo un’evidenza sempre più marcata: le alternative che si pongono alla vita religiosa sono le stesse che si pongono alla Chiesa tout-court… Alcune riguardano, paradossalmente, la loro stessa esistenza.

Così l’opera di Madre Maravillas fu quasi naturalmente destinata ad essere guardata da prospettive deformate. Era un’opera nata con una forte urgenza di espiazione – e come poteva essere altrimenti, se nasceva dal cuore di una donna che aveva “sentito” quasi fisicamente il dolore del Cuore di Cristo? Era un’opera nata per dare a Cristo anime brucianti e senza misura, che lo ripagassero di offese orribili e innumerevoli. Era un’opera nata per ricostruire il cuore ferito di un popolo cristiano, e una nazione semidistrutta. Era insomma una sottolineatura particolarmente austera del carisma carmelitano, tipica di chi ha troppo sofferto, perché ha visto disprezzato l’amore. D’altra parte la Chiesa non vive allo stesso modo in un’epoca e in luoghi in cui le è permessa una pacifica fioritura, di come vive quando si trova in un’epoca o in luoghi in cui è perseguitata assieme a Cristo, suo Sposo. Così anche un carisma può avere diverse ambientazioni.

Ma, negli anni successivi al Concilio, a chi guardava l’opera della Madre da lontano, a chi preferiva dimenticare o aveva già dimenticato, a chi si gettava nelle più azzardate sperimentazioni, la questione parve essere quella semplicistica di uno schieramento tra un Carmelo che si aggiornava e un Carmelo che restava attaccato al passato; tra un Carmelo che si apriva allo spirito e un Carmelo che si arroccava nella “lettera”. La questione si aggravò quando la Madre accettò che i suoi monasteri si riunissero in Associazione allo scopo di sostenersi in una fedeltà “senza sconti” all’ideale teresiano, ma rifiutando la proposta di altre forme di aggregazione, tese a favorire forti cambiamenti nella vita claustrale.
Si creò così una divisione e un profondo dolore nel Carmelo.

L’apostolato di Madre Maravillas

Ventorro negli anni ’60

Va detto senza tentennamenti che la Madre non fu così sciocca da credere che la vocazione del Carmelo esigesse la difesa ottusa di usi e costumi superati. In un’epoca in cui tutti offrivano la ricetta troppo facile di distinguere e separare nella vita religiosa (e, specificamente, in quella carmelitana, con esiti a volte discutibili) “ciò che era sostanziale da ciò che era accidentale”, Madre Maravillas ritenne che l’accidentale potesse essere separato dalla sostanza (per rivestirla di un’altra e più moderna “forma”) soltanto se passava intatto (dalla “forma” antica a quella nuova) lo stesso amore che nella “forma antica” era già stato espresso e contenuto. Forse era questo il messaggio che tutti, da una parte e dall’altra, avrebbero dovuto assimilare. E forse è ancora questa la strada possibile per ritrovarsi.

Del resto l’apertura della Madre, in forte anticipo sui nostri tempi, è dimostrata da un esito imprevisto, ma non secondario della sua opera di fondatrice. Le accadde infatti, durante i suoi numerosi viaggi, di osservare l’estrema povertà che a volte attorniava i suoi monasteri: povertà di gente che non l’aveva scelta per vocazione, ma la soffriva per condizione e ingiustizia sociale. Davanti a tanta pena, la Madre non ritenne che fosse suo dovere raccogliere mezzi e donativi soltanto per i suoi monasteri (che peraltro voleva poverissimi, e che si mantenessero esclusivamente con il lavoro delle monache); usò invece del denaro che tanti affidavano volentieri alla sua carità per intraprendere e finanziare – lei, monaca di clausura! – alcune opere sociali.

Così nel 1967 a Ventorro, alla periferia di Madrid, fece edificare scuole per circa 400 bambini. Aveva visto un giorno quegli aridi e sporchi prati di periferia, invasi da nugoli di ragazzini di strada. “Chi insegnerà loro ad amare il Signore?”, si era detta col pianto nel cuore. Aveva perciò creato una serie di piccoli collegi e aveva trovato una congregazione religiosa disposta a gestirli. E nello stesso luogo, nel 1969, consegnò ad altrettante famiglie di baraccati 16 appartamenti prefabbricati.

Maria Maravillas negli ultimi anni di vita

Tra il 1972 e il 1974vicino al monastero de La Aldehuela – dove trascorreva i suoi ultimi anni di vita – fece realizzare 200 appartamenti per le poverissime famiglie della zona; poi volle che si edificasse anche il complesso delle opere parrocchiali (chiesa, sale per raduni e conferenze, circolo per anziani, oratorio per i giovani ecc.) e il tutto ebbe il bel nome di “Città del Carmelo”. Fu questa la sua intuizione più moderna, da lei intravista in nome della carità: offrire anche ai laici la “città carmelitana”!

Così, l’11 dicembre 1974, giunta a 83 anni, sovraccarica di opere, di virtù e di intuizioni, Madre Maravillas di Gesù spirò a La Aldehuela, uno degli ultimi monasteri da lei fondato.

Qualche tempo prima, su una immaginetta che rappresentava Cristo legato alla colonna, aveva scritto con mano tremante: “Signorefa’ che almeno adesso io ti dia la consolazione di donarti tuttotutto…”. Consolare Gesù era stata la passione di tutta la sua vita. Negli ultimi istanti di vita la udirono mormorare: «Che felicità poter morire carmelitana!».

María Maravillas di Gesù venne beatificata a Roma da San Giovanni Paolo II il 10 maggio del 1998. Lo stesso Giovanni Paolo II la canonizzò a Madrid il 4 maggio del 2003.

di P. Antonio Maria Sicari ocd
da Riflessi di Dio – I Santi del Carmelo, EDIZIONI OCD, Roma 2009.

Grazie alla comunità dei Carmelitani Scalzi della Provincia Veneta