SANTI CONIUGI MARTIN

ZÉLIE GUÉRIN (1831 – 1877)
LOUIS MARTIN (1823 – 1894)

Genitori di S. Teresa di Gesù Bambino

Memoria facoltativa, 12 luglio

Icona della famiglia, al completo, di S. Teresa di Lisieux (Chiesa dei Padri Carmelitani di Trieste)

Luigi e Zelia sono stati dichiarati Venerabili durante l’Anno Internazionale della Famiglia (1994), sono stati beatificati nel 2008 e canonizzati nel 2015: come giorno della loro ricorrenza liturgica è stato scelto il 12 luglio, anniversario del loro matrimonio.

La figlia Teresa aveva già scritto di loro: «Il Signore mi ha dato un padre e una madre più degni del Cielo che della terra» (LT 261); «Ho avuto la felicità di appartenere a genitori senza eguali» (MA, 12). E aggiungeva: «Dio mi ha fatto nascere in una terra santa…» (MA, 11). Scrivendo queste parole Teresa non pensava soltanto alla particolare bontà dei genitori e alla loro fede generosa ma anche al fatto che papà e mamma avevano vissuto il loro matrimonio sulla base di una antecedente vocazione verginale mai dimenticata e mai tradita.

Il primo incontro

Ponte di S. Leonardo, Alençon (Francia)

Ambedue avevano infatti sentito nella giovinezza il desiderio di consacrarsi a Dio ma non avevano potuto realizzarlo: Luigi perché non conosceva il latino (allora ritenuto essenziale alla pratica della vita monastica) e Zelia perché di salute malferma. Il loro matrimonio avvenne in seguito a un incontro casuale ma provvidenziale, sul ponte S. Leonardo nella cittadina normanna di Alençon: incrociando quel giovane uomo, dall’atteggiamento così riservato e signorile, Zelia aveva sentito nel cuore una voce che le diceva: «È questo lo Sposo che io ho preparato per te!».

Luigi aveva 35 anni, Zelia ne aveva 27: ambedue così spiritualmente maturi che bastarono loro tre mesi per conoscersi e prendere la decisione di sposarsi. Celebrarono le nozze in Cattedrale, alla mezzanotte del 13 luglio 1858. All’inizio avevano quasi pensato a conciliare assieme la vocazione al matrimonio e la loro antica passione ad appartenere soltanto a Dio, vivendo assieme come veri sposi, ma verginalmente. Poi il loro confessore li aiutò a capire che avere dei figli e spendersi interamente per la loro santità, era la maniera più normale (ma quanto rara!) di unire assieme le due vocazioni.

Chiamati ad essere famiglia

Maria-Elena

Ebbero nove figli, dei quali sopravvissero soltanto cinque. Erano tempi in cui la mortalità infantile era ancora altissima, bastava un’infezione intestinale o una bronchite a provocare la tragedia e i rimedi a disposizione erano soprattutto empirici. Due maschietti e una femminuccia morirono entro il primo anno di vita. Un’altra femminuccia, Maria Elena, la più amata, morì a cinque anni. Sopravvissero cinque bambine. Certo Luigi e Zelia sapevano che i figli appartengono soltanto a Dio, ma lo re-impararono umilmente, accettando quel duro alternarsi di nascite e di morti, di malattie e guarigioni, di ricadute e riprese, ch’era allora il destino dell’infanzia. Sapevano che il loro compito era quello di «allevare figli per il Cielo» (LF, 192): questo significava anzitutto una lunga, paziente e gioiosa attività per farli crescere, educandoli nella fede; per un destino eterno e felice.

Ciò che rese questi genitori “esemplari” – cioè modelli di vita cristiana – fu la loro capacità di vivere tutto come offerta: poiché essi avevano dato la vita in nome del Creatore (questo significa esattamente “procreare”), la riaffidavano alle Sue mani. Possiamo dire che i coniugi Martin vissero la generazione e l’educazione dei figli come preghiera: domanda di un dono, accettazione riconoscente, poi cura affettuosa del dono ricevuto. Se, in qualche caso, il dono veniva loro nuovamente richiesto, erano addolorati, ma non si sentivano traditi. Essi realizzarono, dunque, la propria verginità in relazione ai figli, proprio trovando in essi il luogo della felicità e del dolore – inestricabilmente congiunti – e i figli furono da essi riconosciuti nella loro ultima appartenenza a Dio Padre e amati per il loro ultimo destino.

Luigi Martin era un tipo meditativo e idealista, che amava in egual misura il silenzio e l’avventura; il ritiro contemplativo e il viaggiare per paesi sconosciuti; la precisione matematica e la letteratura romantica. Aveva scelto la professione di orologiaio e passava lunghe ore nel suo laboratorio di precisione, gestendo anche un piccolo negozio di oreficeria. Zelia era una ricamatrice esperta nel celebre merletto di “Alençon”, allora molto ricercato, e aveva organizzato un laboratorio, con un piccolo commercio in proprio.

Luigi Martin

La collaborazione di Luigi non le mancava certo, ed ella sapeva di poter contare totalmente su di Lui. Scriveva al proprio fratello: «Io sono sempre felicissima con Luigi. Egli mi rende la vita molto dolce. È veramente un santo mio marito, ne auguro uno come lui a ogni donna» (LF, 1). Il loro affetto non si affievolì mai, tanto che, dieci anni dopo, lei stessa scriveva al marito, in viaggio per affari:

«Ti seguo in spirito tutta la giornata; mi dico: In questo momento Luigi fa la tal cosa. Non vedo il momento di esserti vicina, mio caro Luigi, ti amo con tutto il mio cuore e sento ancora raddoppiare il mio affetto per la privazione che provo della tua presenza. Mi sarebbe impossibile vivere lontana da te» (LF, 108).

Da un altra lettera, ancora più bella, inviata al marito che finalmente stava per tornare, traspare la loro intimità coniugale fatta di piccole cose e di abituali battute scherzose che i due si scambiavano, ma con un’affezione totale, rivelata anche solo dalla firma:

 

«Quando riceverai questa lettera, sarò occupata a mettere in ordine il tuo banco da lavoro; non ti dovrai irritare, non perderò nulla, nemmeno un vecchio quadrante, né un pezzetto di molla, insomma niente, e poi sarà tutto pulito sopra e sotto! Non potrai dire che ho soltanto cambiato il posto alla polvere, perché non ce ne sarà più (…). Ti abbraccio di tutto cuore; oggi, al pensiero che sto per rivederti, sono tanto felice che non posso lavorare. Tua moglie che ti ama più della sua vita» (LF, 46).

Ed anche Luigi, quando le scriveva, si firmava: «Il tuo marito e vero amico, che ti ama più della vita».

Zelia Guérin col figlio Marie-Joseph-Louis

Ogni mattina papà e mamma, al suono della campana delle 5.30, uscivano per andare alla messa. E le figlie li accompagnavano nel loro ultimo dormiveglia. Un po’ più tardi cominciava la giornata delle ragazze, e tutte sapevano che si doveva sempre iniziare “offrendo il cuore al Signore” con la formula appresa dalle labbra materne: «Mio Dio ti offro il mio cuore, prendilo, se vuoi, in modo che nessun altro lo possegga, ma soltanto Tu, mio buon Gesù». L’esame di coscienza per la confessione avveniva sulle ginocchia della mamma, perché era lei che doveva rendere buono e impregnato di tenerezza quell’aspetto un po’ difficile del Sacramento del Perdono. Tutte le piccole difficoltà della vita – dall’imparare a leggere e scrivere, al modo di risolvere i piccoli litigi, alla paura del dentista – erano affrontate col criterio del «far piacere a Gesù».

Dentro questo normale tessuto di vita s’inserivano, poi, tutti gli atteggiamenti che dai genitori si riverberavano sui figli: la carità per i poveri, anche a costo di subire a lungo fatiche e fastidi: la solidarietà per i vicini anche nelle situazioni più sgradevoli: il negozio di papà ostinatamente chiuso nei giorni festivi, perché erano giorni in cui Dio solo doveva essere servito; l’atteggiamento della mamma – giusto e materno – verso le operaie del laboratorio dei merletti e con la domestica. La distribuzione della paga settimanale era talmente sacra che Zelia non volle rimandarla neppure il giorno in cui perse un bambino: e la domenica pomeriggio era sempre riservata alla visita delle operaie malate: molteplici erano i suoi interventi sobri e delicati, nelle situazioni di necessità, tanto che ella poteva affermare in tutta sincerità: «tratto le mie operaie come se fossero figlie mie» (LF, 29).

Non le mancò nemmeno l’esperienza più dura da portare, per una madre: quella di una figlia caratteriale (Leonia), che non si sapeva mai come prendere; che passava continuamente da impeti di generosità a incredibili ostinazioni che sconfinavano con l’ottusità: affettuosa e ombrosa se voleva qualcosa la piccola era capace di urlare per intere mezze giornate. In collegio (cioè: a scuola) la definirono «una bambina terribile» fino a che la dimisero. E Zelia, con assoluta onestà commentò «Quando i nostri figli non sono come gli altri tocca a noi genitori portarne il peso» (LF 117, nota). I giudizi della mamma su questa strana figlioletta malriuscita sono lucidi fino ad essere impietosi («la povera bambina è coperta di difetti come da un mantello. Non si sa come prenderla» – LF, 185), e tuttavia mai ella le assegnò un “destino” diverso: per lei offrì a Dio ogni fatica, ogni pena, ogni sofferenza, ogni preghiera, purché Egli ne facesse comunque una santa: «Il buon Dio è così misericordioso che ho sempre sperato e spero ancora» (ivi). Per anni ella aveva cercato di trovare l’occasione giusta, il momento opportuno in cui l’atto educativo potesse raggiungere il suo cuore:

«Questo pomeriggio l’ho fatta venire accanto a me per farle leggere alcune preghiere, ma presto sì è stancata e mi ha detto: “Mamma, raccontami la vita di Nostro Signore Gesù Cristo”. Non ero disposta a narrare, ciò mi stanca molto; ho sempre male alla gola. Infine mi sono fatta forza e le ho raccontato la vita di Nostro Signore. Quando sono arrivata alla Passione piangeva. Mi ha fatto piacere scorgere in lei questi sentimenti» (LF, 139).

Leonia Martin

Giunse a conquistarsi totalmente il cuore della povera figlia “difficile” solo pochi mesi prima della morte, scoprendo che i problemi della ragazza (ormai quattordicenne) erano in gran parte motivati da una cameriera che l’aveva plagiata (cfr LF, 196). Liberata da quella soggezione, Leonia rifiorì: «Ha cominciato a dimostrarmi un affetto che cresce incessantemente. Non mi può più lasciare, arriva perfino a confidarmi i suoi pensieri più segreti; il timore e l’amore di Dio penetrano a poco a poco nel suo cuore. Ma se tu sapessi con quale dolcezza la tratto (…). Vuol fare la Comunione alla fine di maggio, ed è una preparazione di tutti i giorni, di tutti gli istanti. Insomma, che il buon Dio sia benedetto!» (LF, 201; cfr. anche LF, 196 e 200).

Il capolavoro educativo di Zelia fu certamente la cura della piccola Teresa, che nacque quando Zelia aveva ormai passato i quarantanni ed era malata. Luigi ne aveva già cinquanta. Quando la piccola non ha ancora tre anni, la mamma racconta divertita: «La piccina è un folletto senza pari, viene ad accarezzarmi, augurandomi la morte: “Oh, come vorrei che tu morissi, mammina mia”. La sgridano e lei dice: “Ma è perché tu vada in Cielo, lo dici sempre che bisogna morire per andarci!”» (LF, 147). A quattro anni, il pensiero del cielo è ancora familiare, ma già si collega al problema della salvezza, del bene e del male, del rischio. Racconta ancora la mamma:

«L’altro giorno Teresa mi domanda se andrà in Cielo: le dico di sì, se sarà proprio buona; mi risponde: “Sì, ma se non fossi proprio buona, andrei all’inferno… ma io lo so che cosa farei: scapperei su con te che saresti in cielo, poi tu mi stringeresti forte forte tra le braccia. Come farebbe il buon Dio a non prendermi?”. Ho letto nei suoi occhi: è convinta che il buon Dio non le può fare nulla se è tra le braccia della mamma» (LF, 170).

La malattia di Zelia 

Intanto pero la salute di Zelia deperiva a vista d’occhio. Le ghiandola al seno che da tempo la faceva soffrire, s’era ingrossata ancora e le dava fitte sempre più dolorose. Dopo i primi esami, il medico confermò che la situazione era molto grave e non c’era molto da sperare da un intervento chirurgico. Alla vigilia di Natale del 1876 si recò da uno specialista di Lisieux, ma ne ebbe una diagnosi ancora più funesta. Ne scrisse al marito:

«Mettiamoci nelle mani del buon Dio, egli sa meglio ci noi quello che ci occorre: “È lui che fa la ferita e che la fascia”.. Non sto volentieri che con te, mio caro Luigi» (LF, 170). Ai chiudersi di quel tragico ultimo dicembre della sua vita, poteva affermare: «Sono come i bambini che non si preoccupane dei domani, aspetto sempre la felicità» (LF, 180).

Zelia Guérin

Per accontentare i familiari, fece un pellegrinaggio a Lourdes per chiedere la guarigione alla Santa Vergine. Non la ottenne, ma tornò a casa «così allegramente come se avessi ottenuto la grazia desiderata: ciò ha ridato coraggio (al papà) ed ha riportato il buon umore in casa…». E alle figlie deluse spiegò «Le Santa Vergine ha detto a tutte noi come a Bernadette “Vi renderò felici non in questo mondo, ma nell’altro”» (LF, 210). Gli ultimi giorni furono impregnati di sofferenze indicibili. II 27 luglio 1887 – un mese prima di morire – raccontava ai fratello farmacista: «Ieri ho sofferto in ventiquattro ore quello che non ho mai patito in tutta la mia vita… La mia povera testa non poteva toccare niente; non riuscivo a fare il più piccolo movimento, nemmeno per inghiottire qualcosa… Lo spostamento più leggero mi causava atroci dolori… ho dovuto gemere per la notte intera… il povero Luigi ogni tanto mi prendeva in braccio come una bambina» (LF, 216). Ripeteva spesso, pregando a Dio: «O Tu che mi hai creata, abbi pietà di me». Quando morì era l’alba del 28 agosto 1877, e Teresa – che aveva soltanto quattro anni – capì la gravità della perdita quando s’accorse che, alla mattina, non c’era più la mamma a preoccuparsi di farle dire le preghiere.

L’educazione delle ragazze, soprattutto della piccola Teresa, era l’eredita più cara che Zelia lasciava al suo Luigi, che aveva ormai 54 anni. Consultandosi con le figlie più grandi, egli decise di trasferire la famiglia a Lisieux, in modo che le ragazze potessero crescere almeno sotto gli sguardi discreti e materni della zia, una donna saggia e generosa che poteva in parte colmare l’assenza della madre. Luigi Martin ebbe la vocazione e il dono di incarnare l’infinita e dolce paternità di Dio nella sua quotidiana e affascinante paternità umana, in modo che l’immagine e la somiglianza quasi si confondessero con l’originale.

Da Alençon a Lisieux

A Lisieux la vita familiare scorreva in modo che gli aspetti naturali e quelli soprannaturali si amalgamavano tra loro senza discontinuità ne forzature: il naturale era vissuto soprannaturalmente, il soprannaturale era vissuto naturalmente. Ogni persona, ogni avvenimento, le cose stesse svolgevano la loro naturale funzione di segno (tutto cioè rimandava a qualcosa di più grande”, di “più vero”, di “più buono” e di “più bello”, e questo “rimando” veniva abitualmente colto) e di sacramento (tutto comunicava un po’ di “grazia ai Dio”).

Questo non significa che la vita familiare fosse priva di problemi. Teresa, ad esempio, dalla morte della mamma non era più la bambina felice e impetuosa, espansiva e ostinata di un tempo: era divenuta timida, ipersensibile, facile al pianto e alle malattie. Ma a salvarla ci fu proprio l’ambiente custodito dal padre: «Ero circondata dagli affetti più delicati. Il cuore così tenero di papà aveva aggiunto, all’amore che già possedeva, anche un amore veramente materno» (MA, 45).

Casa Martin a Lisieux

Era la sorella Paolina che andava a svegliare la piccola Teresa: «Al mattino tu venivi a svegliarmi: mi domandavi se avevo offerto a Dio il mio cuore, poi mi aiutavi a vestirmi parlandomi di Lui. Poi accanto a te facevo la mia preghiera…» (MA, 46; cfr. 53). Cosi cominciava la giornata in casa Martin. Poi la bambina imparava a leggere e a scrivere, studiava la grammatica, il catechismo e la storia sacra (allora, fino agli otto anni l’educazione scolare avveniva, se possibile, in famiglia). Al pomeriggio c’era l’immancabile passeggiata col papà, e sempre una breve visita al SS. Sacramento, ogni volta in una chiesa diversa della cittadina; quindi un regalino da pochi soldi. Poi a casa a fare i compiti. E il resto del tempo, nella bella stagione, in giardino a curare fiori, galline, conigli assieme al papà. Ogni tanto c’era qualche bella escursione: Teresa accompagnava il papà a pesca e faceva anch’essa dei piccoli tentativi ma preferiva di solito restar seduta sola sull’erba. Abituale era l’incontro per strada con qualche povero, cui Teresa era sempre incaricata di portar l’elemosina.

Il cuore della domenica era senza dubbio la Messa solenne: per la bambina le funzioni erano certo troppo lunghe e le prediche spesso incomprensibili, anche se si sforzava di ascoltare: «Io pero guardavo più papà che il predicatore, e il suo bel volto mi diceva tante cose. A volte i suoi occhi si riempivano di lacrime che lui si sforzava invano di trattenere, sembrava non essere più legato alla terra, tanto la sua anima si immergeva nelle verità eterne…» (MA. 60). Che esperienza preziosa dev’essere, per una bambina, osservare il padre che davanti a Dio si commuove come un bambino! La preghiera comune della sera chiudeva la giornata, e Teresa – cui spettava sempre il posto più vicino al papà – annota: «Mi bastava guardarlo per sapere come pregano i santi!» (MA, 63).

Tutto in quella casa evocava la paternità di Dio e la sua dimora celeste: a fine anno scolastico (anche se gli studi avvenivano tutti in famiglia) c’erano gli esami davanti al papà, poi la lettura dei risultati, poi la premiazione: «Il cuore mi batteva forte forte, quando ricevevo il premio e la corona: per me era come l’immagine del giudizio universale» (MA, 67). Luigi Martin trattò l’umanità delle sue cinque figlie in modo da rendere loro sensibile, quotidiana e affascinante la fede nella paternità di Dio. E ne ebbe in cambio un attaccamento e una stima sconfinati.
Racconta Teresa: «Non potevo nemmeno pensare, senza fremere, che papà poteva morire. Una volta era salito sopra una scala e, poiché io rimanevo lì sotto, mi gridò: “Allontanati, piccolina, ché se cado ti schiaccio!”. All’udire ciò provai una rivolta interiore, invece di allontanarmi mi appiccicai alla scala pensando: “Almeno se papà cade non avrò il dispiacere di vederlo morire, morirò con lui!”» (MA, 72).

«Non posso dire quanto bene volevo a papà; tutto in lui mi destava ammirazione; quando mi spiegava i suoi pensieri (come se fossi stata una bambina grande) gli dicevo ingenuamente che se egli avesse detto quelle cose agli uomini di governo, certamente lo avrebbero preso per farlo Re, e la Francia sarebbe stata felice come non lo era stata mai…!» (MA, 72).

In una lettera che la primogenita, Maria, scrisse un giorno al padre, si legge: «In questa vita tu sei, con Gesù, il Paradiso delle tue figlie».

Le figlie chiamate al Carmelo

Paolina Martin all’età di 20 anni

Non è strano che, in una simile famiglia, le vocazioni verginali sbocciassero una dopo l’altra, dato che esse dipendono sempre da un acuto senso della paternità di Dio e da una affezione sponsale al suo Santo Figlio Gesù. La prima a partire per il Carmelo fu Paolina, la secondogenita ventenne che si dedicava particolarmente all’educazione di Teresa. Poi partì la primogenita, Maria, sulle cui spalle posava la conduzione della casa. A questo punto non era difficile per Luigi Martin intuire che anche Teresa avrebbe seguito col tempo la stessa strada. Per fortuna c’era ancora tanto tempo, dato che la beniamina della famiglia aveva solo quattordici anni. Egli ne aveva ormai sessantatré, ed era di salute malferma.

Qualche mese dopo l’ingresso di Maria al Carmelo, venne colpito da un attacco di congestione cerebrale, con una emiplegia per fortuna passeggera. Era appena guarito che Teresa, in un bel pomeriggio di Pentecoste del 1887, gli chiedeva la grazia straordinaria di poter entrare al Carmelo a quindici anni.

«Gli confidai il mio desiderio di entrare al Carmelo… egli non disse nemmeno una parola per distogliermi dalla mia vocazione: si limitò a farmi osservare che ero troppo giovane per prendere una decisione così grave. Ma io difesi cosi bene la mia causa che papà, con la sua natura semplice e retta, fu ben presto convinto che il mio desiderio era quello di Dio stesso e, nella sua fede profonda, esclamò che Dio gli faceva un grande onore a domandargli così le sue figlie… Papà sembrava possedere quella gioia tranquilla che viene dal sacrificio compiuto, e mi parlò come un santo… S’avvicinò al muro del giardino e mi mostrò che tra le pietre cresceva un piccolo fiore bianco, simile a un giglio in miniatura, lo prese e me lo regalò spiegandomi con quale cura Dio lo aveva fatto crescere e l’aveva conservato fino a quel giorno. Ascoltandolo mi pareva di sentire raccontare la mia storia, talmente grande era la rassomiglianza con quello che Gesù aveva fatto con la mia anima. Ricevetti quel fiore come una reliquia e vidi che cogliendolo papà l’aveva tolto con tutte te radici, sembrava destinato a essere trapiantato in un altra terra più fertile…» (MA. 143).

Fu Luigi ad accompagnare la figlia dal Vescovo (cui toccava decidere) e costui si sforzò di convincere la fanciulla ad attendere, credendo tra l’altro di prendere le parti del papà: restò stranito quando vide che Luigi perorava la causa di Teresa. Non ottennero nulla, ma in Curia commentarono «che non si era mai veduta una cosa simile: una figlia tanto desiderosa di offrirsi a Dio, quanto il padre lo era di donargliela».
Presero parte allora a un pellegrinaggio diocesano a Roma, dove Teresa, contravvenendo a tutte le disposizioni, durante l’udienza si aggrappò alle vesti del vecchio Papa Leone XIII per implorare il suo alto consenso. «Entrerete, se Dio lo vuole», le rispose il Papa. Mentre ella tentava ancora di spiegarsi il vecchio Pontefice posò la sua mano sulle labbra della fanciulla e poi l’alzò per benedirla. Quando gli si inginocchiò davanti Luigi Martin – presentato come il padre di due carmelitane – il Papa posò la sua mano sulla testa venerabile di quell’anziano signore. Teresa vide in quei due gesti un presagio. Dio voleva davvero consacrare a sé la figlia e il papà: e ambedue avrebbe offerto solennemente la vita.

Celina Martin

In seguito le difficoltà svanirono una dopo l’altra, e Teresa entrò quindicenne al Carmelo. Il giorno in cui oltrepassò la soglia della clausura – tutta bianca nella sua veste da sposa – si inginocchiò davanti al vecchio padre per chiedergli la benedizione. Allora Luigi si mise anch’egli in ginocchio davanti alla sua bambina e le traccio un segno di croce sulla fronte. Luigi scrisse a un amico: «La mia reginetta è entrata ieri al Carmelo. Dio solo può chiedere un simile sacrificio. Egli mi aiuta così potentemente che, in mezzo alle lacrime, il mio cuore sovrabbonda di gioia» (LF, 15).

L’offerta a Dio

Luigi capiva d’esser rimasto solo con se stesso (anche Celina – che gli era rimasta provvisoriamente accanto, come una madre, per accudirlo nella vecchiaia e nella malattia – attendeva di realizzare la stessa vocazione delle sorelle): ora egli poteva e doveva compiere la sua missione terrena di Padre, dando alle figlie l’ultimo e più grande esempio evangelico: quello di tornare, lui, come un bambino nelle braccia del suo Dio.
Un giorno durante una visita al Monastero si lasciò sfuggire questa confidenza: «Figliole, torno da Alençon, dove ho ricevuto, nella chiesa di “Notre-Dame” grazie tanto grandi e tali consolazioni che ho fatto questa preghiera: ‘Mio Dio, è troppo! Sono troppo felice, non posso venire in cielo così, voglio soffrire qualcosa per Te. E mi sono offerto…». Non osò continuare davanti alle figlie, ma tutte avevano compreso che si era offerto a condividere il mistero della passione di Cristo.

Gli toccò la sofferenza più amara: due attacchi di paralisi, a cui si legarono fenomeni temporanei, ma sempre più frequenti, di degenerazione psichica: perdita di memoria, difficoltà di linguaggio, allucinazioni, idee fisse, timori ingiustificati, periodi di depressione e di esaltazione, voglia di fuggire lontano e di nascondersi. Il tutto dovuto probabilmente ad arteriosclerosi, accompagnata da crisi acute di uremia, che allora non si sapeva come controllare. Nei momenti di lucidità si sentiva umiliato, ma diceva: «Tutto per la maggior gloria di Dio!». Nella sua mente si mescolavano progetti irragionevoli e impeti di santità. Quando lo riportarono a casa dopo un lungo viaggio senza meta, compiuto in stato confusionale, alla figlia che gliene domandava il perché rispondeva: «Volevo andare ad amare Dio con tutto il cuore!». I suoi sogni vocazionali giovanili riaffioravano e si mescolavano con i turbamenti provocati dalla malattia.

Ma tutto sembrava avere una duplice dimensione: alla superficie l’umiliazione della demenza, al fondo il mistero della croce. Così, quando Luigi seppe che in cattedrale si raccoglievano offerte per un nuovo altare maggiore, si recò a offrire lui l’intera enorme somma: diecimila franchi d’oro. Il gesto fu attribuito all’irresponsabilità provocata dal suo precario stato di salute, ma Teresa dal chiostro rivendicava il sacro diritto del Padre: egli aveva offerto a Dio le sue figlie e ora stava offrendo se stesso, era giusto che fosse lui ad offrire anche l’altare!

Riacquistò la piena lucidità per la festa della “Vestizione” (inizio del noviziato) di Teresa. Quel giorno fu un trionfo: la figlia in abito da sposa uscì simbolicamente per un istante dalla clausura e, al braccio del babbo, finalmente radioso, entrò solennemente nella cappella del monastero.

Casa di cura “Le Bon Saveur”, Caen (Francia)

Fu come la Domenica delle Palme, a cui seguì subito la settimana di Passione: gli attacchi si ripeterono in forma ancora più grave, e si dovette giungere alla decisione più straziante: internarlo in una casa di cura per malati mentali. Lo portarono al Bon Sauveur, un grande ospedale tristemente noto, tra altri mille e settecento malati; ed era ancora in condizioni di capire quello che gli accadeva. Diceva la suora che reggeva il reparto: «Fa male vedere questo bel patriarca in un simile stato. Noi suore siamo tutte profondamente addolorate e anche il personale è costernato. In poco tempo che è tra noi ha saputo farsi amare, e poi c’è in lui qualcosa di così venerabile! Egli porta un peso misterioso. Si vede che è una prova…». E continuava a ripetere: «C’è qualcosa di così venerabile!…».

Per restare a contatto con gli altri malati aveva rifiutato l’appartamentino privato che avrebbe potuto permettersi, e ciò che riceveva in dono dai parenti lo distribuiva come se fosse di tutti. Un giorno la suora gli disse che in quell’ospedale egli poteva fare del bene a tanti altri malati che erano senza fede: «Voi potete essere un apostolo!». «È vero – rispose Luigi – ma avrei preferito esserlo in un posto diverso; e tuttavia questa è la volontà del buon Dio. Credo che sia per farmi vincere il mio orgoglio». In un altro momento di lucidità spiegò al medico: «Io sono sempre stato abituato a comandare, ed ora mi vedo ridotto ad obbedire. Ma so perché il Buon Dio mi ha dato questa prova: non avevo mai avuto umiliazioni nella mia vita e occorreva che ne avessi una…».

Santa Teresa di Gesù Bambino del Volto Santo

Avevano raccontato a Teresa che a volte, durante le sue crisi, il papà si copriva il volto con un fazzoletto, come se si vergognasse a essere guardato così umiliato. Alle altre sorelle si stringeva il cuore, ma per lei era stata un’illuminazione. Pensava al volto sofferente di Cristo: quello che i soldati avevano coperto per scherno, quello che si era impresso nel velo della Veronica; ed ella si immergeva in quel mistero di nascondimento che aveva reso deforme per amore il Volto del “più bello tra i figli degli uomini” (Sal 44, 3).
Fu in seguito a questi avvenimenti che Teresa modificò il suo nome religioso e cominciò a firmare le sue lettere: Teresa del Bambino Gesù del Volto Santo, così, senza interruzione, quasi a dire che il mistero dell’infanzia evangelica al quale si era consacrata si compiva ora nel mistero del figlio sofferente, come accadde a Gesù quando lo deposero dalla croce e lo adagiarono nel grembo della madre addolorata. «Il Signore ama papà incomparabilmente di più di quanto lo amiamo noi. Papà è il piccolo bambino del buon Dio» (LT, 91), scriveva Teresa dal monastero. E difatti Luigi Martin sembrava abbandonarsi ogni giorno di più, totalmente indifeso, nelle mani di Dio.

Durante la sua ultima visita al monastero, il papà e le figlie poterono soltanto guardarsi e piangere, perché il malato riusciva a pronunciare solo qualche monosillabo, e ogni discorso l’avrebbe inutilmente agitato. Alla fine gli dissero solo: «Arrivederci» ed egli alzò gli occhi, indicò in alto col dito e restò così a lungo, poi riuscì faticosamente a sillabare: «In cielo!».

In famiglia era assistito come si assiste un santo. Egli aveva ancora dei momenti buoni, e tutti vedevano che l’orientamento del cuore e della mente era sempre immutato. «Chiedi a S. Giuseppe che io possa morire da santo» – sussurrò un giorno alla figlia Leonia che lo accudiva.

Morì il 29 luglio 1894, a 71 anni di età, guardando fissamente la figlia che accanto a lui recitava la bella preghiera che comincia: «Gesù Giuseppe e Maria vi dono il cuore, la vita e l’anima mia…».

Confidò Teresa: «La morte del babbo non mi fa l’effetto di una morte, ma di una vera vita. Lo ritrovo dopo sei anni di assenza, lo sento intorno a me che mi guarda, mi protegge» (LT, 170). E volle comporre una lunga poesia intitolata: «Preghiera della figlia di un Santo», per raccomandare a lui una per una tutte le sorelle e se stessa, e affidargli tutti i loro ricordi.

Al Carmelo conservavano come una reliquia l’ultimo biglietto che il papà aveva inviato alcuni anni prima, e che era come la sintesi di tutta la loro storia familiare: «Tengo a dirvi, mie care figlie, che sono spinto a ringraziare e a farvi ringraziare il buon Dio, perché sento che la nostra famiglia, benché umilissima, ha l’onore di essere nel numero delle privilegiate dal nostro adorabile Creatore» (L 16).

di P. Antonio M. Sicari ocd

Grazie alla comunità dei Carmelitani Scalzi della Provincia Veneta